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Il Monte Vesta è una montagna delle Prealpi Bresciane e Gardesane. Situato tra il territorio comunale di Valvestino e di Gargnano nella parte sud occidentale della Val Vestino, sovrasta l'abitato di Bollone.

Monte Vesta
Malga Vesta di Cima e il "Laghetto di Vesta"
Stato Italia
Regione Lombardia
Provincia Brescia
Altezza1 400 m s.l.m.
CatenaAlpi
Coordinate45°48′14″N 10°37′43″E
Altri nomi e significatiDosso del Cuchetto per la sola cima
Mappa di localizzazione
Monte Vesta
Dati SOIUSA
Grande ParteAlpi Orientali
Grande SettoreAlpi Sud-orientali
SezionePrealpi Bresciane e Gardesane
SottosezionePrealpi Gardesane
SupergruppoPrealpi Gardesane Sud-occidentali
GruppoGruppo Tombea-Manos
SottogruppoGruppo della Cima Tombea
CodiceII/C-30.II-B.5.a

Geografia fisica


Fa parte del gruppo del Tombea-Manos ed è raggiungibile sia dall'abitato di Bollone tramite un ripido sentiero di circa 4 km. o da Capovalle. Il Monte Vesta dà il nome alla sottostante Valle e alla malghe di Cima, di Mezzo e di Fondo e la vetta è chiamata Dosso del Cuchetto[1] ed è sormontata da un cippo di confine in pietra calcarea austro-veneto datato 1753.


Origine del nome


Secondo una tradizione secolare il Monte Vesta prenderebbe il nome da un tempietto dedicato al culto pagano di Vesta, una dea della mitologia romana, che si trovava sulla sua sommità, il detto Dosso del Cuchetto, le cui vestali custodivano e mantenevano acceso il fuoco sacro. Per il geografo trentino Ottone Brentari l'unione fra i monti Vesta e Stino avrebbe dato il nome alla Val Vestino che la chiudono nella parte sud occidentale[2], invece per Fausto Camerini, giornalista e autore di numerose guide escursionistiche di montagna, da "besta" che significa bestiame-pascolo, in quanto il luogo era destinato fino agli anni novanta del secolo scorso all'alpeggio praticato dagli allevatori di Bollone che pagavano l'affitto al comune di Gargnano proprietario della malga Vesta di Cima[3]. Infine lo storico bresciano Paolo Guerrini ipotizza derivi dalla voce similare valtellinese "Vestàgg" che indica una via, strada o canalone ripido adoperato per far discendere il legname o che abbia lo stesso significato di Vesto frazione di Marone[4]. Il toponimo di Vesta ricorre pure nella zona precisamente in una località sulle sponde del lago d'Idro e in Val di Ledro, a Molina, ove "besta" o "beste" indica un pascolo.


Storia


Nei secoli passati il territorio compreso tra il monte Vesta e il monte Carzen fu luogo di confine prima tra il Principato vescovile di Trento, al quale apparteneva la Val Vestino, e la Repubblica di Venezia poi, fino al 1918, tra l'Impero d'Austria e il Regno d'Italia.

Nel 1753, con il Trattato di Rovereto, sottoscritto dal Doge di Venezia Francesco Loredan e l'imperatrice Maria Teresa d'Austria, furono delimitati i confini tra i due stati trovando così un definitivo accordo sulle secolari questioni territoriali esistenti fra le opposte comunità. Così sulla sommità del monte Vesta e poco distante a Vesta di Cima furono posti dalla commissione due cippi confinari di pietra che recano scolpita la data 1753. Verso la fine dell'Ottocento il Regno d'Italia per controllare i traffici commerciali fra i due stati, cinse la zona di confine con la Val Vestino con una serie di casermette della Guardia di Finanza e una di queste fu costruita a Vesta di Cima.

Nel luglio del 1866 durante la terza guerra di indipendenza fu scalato da una colonna di garibaldini al comando del maggiore Luigi Castellazzo e da un'altra austriaca comandata dal colonnello Hermann Thour von Fernburg[5].

La prima ascensione invernale nota è di Francesco Coppellotti detto Nino di Gargnano, alpinista della sezione del CAI di Brescia, salendo da Bollone per il Passo di Vesta il 28 gennaio 1906.


Il confine di Stato e i cippi austro-veneti


Nel 1004 il Trentino fu eretto a Comitato (Contea) del Sacro Romano Impero dall'imperatore Enrico II il Santo e, nel 1027, l'imperatore Corrado II il Salico donò la contea di Trento al vescovo Udalrico II (1022-1055) e ai suoi successori. Da allora il vescovo di Trento rivestì anche il titolo di principe del Sacro Romano Impero ed ebbe nelle sue mani il potere spirituale e quello temporale. Poco anni dopo le terre di Val Vestino furono aggregate nuovamente al Trentino insieme alla valle di Ledro, Riva del Garda, Vallagarina, le Giudicarie, Tignale e Bagolino.

All'interno del principato si vennero a confermare delle piccole entità subordinate su proprietà di nobili famiglie, come i Cles, i Madruzzo, i Lodron, i Castelbarco, ma anche delle forme diverse di organizzazione come il "Libero comune di Storo", le "Sette pievi delle Giudicarie", i "Quattro vicariati", le quali godevano di una certa autonomia sulla base di Statuti riconosciuti, pur riconoscendosi anche l'autorità superiore del Vescovo e dell'Imperatore del Sacro Romano Impero Nationis Germanicae, mentre la restante parte del territorio era soggetta al dominio diretto del Vescovo. La prima notizia documentata dell'appartenenza della Val Vestino alla famiglia Lodron risale al 4 giugno 1189 quando sette illustri uomini di Storo strinsero un patto fra loro per dirimere tutte le liti che potessero insorgere per il possesso per il castello di Lodrone e tutti i possessi che un certo Calapino possedeva nella Pieve di Condino e in Val Vestino. È presumibile che da quel periodo o poco tempo avanti il monte Vesta e il versante SE del monte Carzen divenissero già confine con il territorio a sud del bresciano appartenente alla comunità di Gargnano.

Dal 1337 al 1426 segnò la frontiera con la signoria dei Visconti, dei Malatesta (dal 1404) e con il Ducato di Milano. Successivamente con la Repubblica di Venezia quando il 21 agosto del 1752 a seguito del trattato di Rovereto, stipulato tra l'impero d'Austria e la Serenissima , ne furono determinati nuovamente i confini di Stato con la collocazione nell'anno seguente del 1753 di 20 cippi di pietra calcarea sui confini della Val Vestino. Tra questi il numero 25 EF principale posto a quota 1400 m. sulla vetta del monte Vesta detta anche Dosso del Cuchetto; vicino sulla cresta orientale del monte Carzen il termine intermedio numero 24 che consiste in una croce sul cengio in uno spuntone roccioso con il millesimo 1753; il numero 26 FG sito a quota 1350 a Vesta di Cima nei pressi dell'ex caserma della Vecchia Dogana della Regia Guardia di Finanza[6]. Questi dopo la caduta di Venezia del 1797 e la parentesi napoleonica e austriaca riguardante l'occupazione della Lombardia, i termini continueranno a determinare il confine di Stato con il Regno d'Italia dal 1859 fino al 1918 e successivamente quello comunale con Gargnano e Capovalle.


Il contrabbando del 1800


Verso la fine del 1800 il Regno d'Italia cinse i confini di Stato della Val Vestino con la costruzione di ben tre Caselli di Dogana presidiati dai militi della Regia Guardia di Finanza, consistenti nella sezione di Casello di Bocca Paolone a vigilanza del traffico tra la Valle del Droanello, Gargnano, Tremosine e Tignale, il Vasello di Dogana di Gargnano detto della Patoàla, il più importante, sito nella valle del torrente Toscolano, che fu edificato nel 1891 presso la mulattiera, principale collegamento tra la Valle e la Riviera del Garda, presso il quale il professor Bartolomeo Venturini era solito nascondere il tabacco nel cappello per sfuggire ai controlli e alla tassazione, la caderma sul monte Vesta a presidio del controllo tra Bollone e la Valle di Vesta, Treviso Bresciano e Capovalle, e infine la sezione di Casello detto del Comione, nel comune di Capovalle, con Moerna e il monte Stino. Tutti questi presidi furono in servizio fino al 24 maggio 1915, giorno dell'occupazione della Valle da parte del Regio esercito italiano.

Bollone come Moerna, terre prossime al confine, nel 1800 furono un crocevia strategico per il contrabbando di merci tra il territorio della Riviera di Salò e il Trentino attraverso la zona montuosa del monte Vesta e del monte Stino. Lo storico toscolanese Claudio Fossati (1838-1895) scriveva nel 1894 che il contrabbando dei valvestinesi era l'unico stimolo a violare le leggi in quanto era fomentato dalle ingiuste tariffe doganali, dai facili guadagni e dalla povertà degli abitanti[7].

Donato Fossati (1870-1949) raccolse la testimonianza di Giacomo Zucchetti detto "Astrologo" di Gaino, un ex milite della Regia Guardia di Finanza, in servizio nella zona di confine tra il finire dell'Ottocento e l'inizio del Novecento[8], il quale affermava che "i contrabbandieri due volte la settimana in poche ore, sorpassata la montagna di Vesta allora linea di confine coll'Austria e calati a Bollone, ritornavano carichi di tabacco, di zucchero e specialmente di alcool, che rivendevano ai produttori d'acqua di cedro specialmente" della Riviera di Salò.[9].


La Grande Guerra. Il sistema difensivo italiano e l'ultima barriera a difesa della Pianura Padana


Agli inizio del '900 l'ipotesi dello stato maggiore del Regio esercito italiano di costruire sul vicino monte Manos un forte armato di cannoni in cupola che avrebbe dovuto operare all'interno dello "Sbarramento Giudicarie" per contrastare una ipotetica avanzata dell'esercito austriaco nel Trentino sud occidentale e in simbiosi con il forte di Valledrane, venne accantonata causa gli insostenibili costi di realizzazione e si optò per la più snella soluzione della messa in posizione di due batterie campali, che nel 1915 verrà definita "2º Gruppo di artiglierie occasionali monte Manos". Appena sotto la vetta fu costruito l'"appostamento di quota 1404", predisposto per quattro cannoni da 149G, il pezzo pesante in uso presso le artiglierie dell'esercito italiano, furono realizzate così quattro piazzole con spalle in cemento armato e di una polveriera. Il luogo si chiama oggi "La Polveriera".

A quota inferiore in località "Fortini Faì", altresì fu messo in opera l'"appostamento di quota 1220" . Il 27 aprile del 1915, un mese prima dell'entrata in guerra dell'Italia, in un documento del regio esercito denominato "Parere sugli appostamenti per batterie occasionali", si legge al riguardo: "4 cannoni da 75A, con intervallo tra i pezzi da 11 metri a 12,50. Si condivide il parere del comando del Genio di Verona, che ritiene sufficiente la costruzione di una sola piazzola sulla destra dell'esistente appostamento, lasciando sgombra la piazzola centrale. Spesa preventivata £. 5.500". Allo scoppio delle ostilità nel maggio furono, per prime, le batterie del monte Manos ad aprire il fuoco contro gli austriaci accampati sul monte Tombea, poi tutto il fronte tacque per sempre[10].

Il monte Vesta fu così fortificato come i vicini Cima Ingorello, monte Manos, monte Carzen e monte Stino con trinceramento di tutta la vetta fino alla caserma della Regia Guardia di Finanza, appostamenti in barbetta per camnoni da 75/27 mod. 1906 e cannoni da 149A mm., una rete di mulattiere e manufatti ad uso logistico dell'esercito. Opere difensive furono costituite sui vicini monte Carzen e monte Manos da postazioni di artiglieria a quota 1404 con 4 cannoni da 149/23 G; a quota 1402 con 4 cannoni da 75/27 Mod. 1906 e trincee a difesa delle artiglierie.

Il monte Vesta fece parte del sistema Tombea-Caplone, l'ultima barriera a difesa della Pianura Padana, uno dei capisaldi principali della Terza linea di difesa arretrata, un'ampia cinta fortificata che chiudeva il settore Alto Garda verso la Valle delle Giudicarie e lungo il fianco occidentale verso il lago d'Idro fino a raccordarsi sulle posizioni fortificate arretrate del monte Denai, una batteria di artiglieria da 149A mm., del monte Stino e con quelle della riviera gardesana del monte Spino, del monte Pizzocolo e del monte Castello di Gaino di Toscolano Maderno. Il settore era difeso da una prima linea lungo la Valle di Ledro (direttrici Passo Nota-Carone-Limone), dietro la quale furono realizzate due Linee arretrate di difesa (direttrici Tremosine-Passo Nota e Mezzema-Passo Nota), disposte verso est in modo da fronteggiare una eventuale conquista austriaca del monte Altissimo di Nago sul monte Baldo. Più indietro la Linea arretrata di resistenza, tra Tignale e il Passo della Puria, in totale furono costruite 2.500 fortificazioni di vario tipo, servite da circa 2.000-3.000 uomini tra artiglieri, fanti e supporti logistici[10].


Cultura



Leggende


Il Monte Vesta è al centro di due leggende, una locale valvestinese e un'altra della riviera gardesana, e in ambedue ricorre sempre nella loro narrazione lo stesso tema: il tempio della dea Vesta. La prima racconta che sette fratelli ladri di origine etrusca fuggiti dalla Toscana si posero a servizio della vestale, custode del tempio di Vesta posto sulla sommità dell'omonimo Monte, e dalla quale ricevettero successivamente in dono per i servizi prestati la Val Vestino, a patto che essi si dividessero e fondassero sette paesi che poi presero i nomi di Armo, Bollone, Cadria, Magasa, Moerna, Persone e Turano[11]; la seconda riportata dallo storico salodiano Bongianni Grattarolo, nel 1599, in "Historia della Riviera di Salo" riferisce che il toponimo della cittadina gardesana di Salò risalirebbe al lucumone etrusco "Saloo", figlio di Osiri d'Egitto, che fuggito dalla Toscana a causa di una pestilenza, riparò in questi luoghi a cercare il tempio della dea Vesta, rinvenendolo appunto nella Val Vestino[12].


Natura


La zona del monte Vesta-Carzen-Manos fu erborizzata a partire dal 1863 dal botanico don Pietro Porta, allora parroco del villaggio di Bollone, seguì nel 1867 la spedizione scientifica dello zoologo austriaco Joseph Gobanz, nel 1875 dal malacologo milanese Napoleone Pini e nel 1936 dell'entomologo Gian Maria Ghidini.

A Vesta di Cima si trova un ampio stagno, detto localmente "Laghetto di Vesta", usato nei mesi dell'alpeggio come abbeveratoio dal bestiame, che fino a pochi decenni fa si colorava di colore rosso a causa della presenza di minuscoli oligocheti.

Non meno suggestive sono le sue risorse naturali costituite da boschi che ricoprono tutti i versanti.


La Valle di Vesta


La sottostante Valle di Vesta, collaterale al Lago di Valvestino, si estende nella quasi sua totalità nel comune di Gargnano, ed è, dal 1998, un'area wilderness, ossia a conservazione protetta e integrale, di proprietà dell'Azienda Regionale delle Foreste (oggi ERSAF) della Regione Lombardia. L'area, non antropizzata, è ricca floristicamente caratterizzata dalla presenza di diverse rarità ed endemismi come il Giglio dorato (Hemerocallis lilio-asphodelus), la Scabiosa vestina, l'Athamantha vestina e l'Euphrasia vestinensis. La fauna che popola la Valle di Vesta è rappresentata dalla presenza del cervo, del capriolo, del camoscio, del gallo cedrone ed il gallo forcello. Tra la fauna invertebrata, invece, è interessante la presenza di un piccolo coleottero troglobio, il Boldoria vestae, endemico delle Val Vestino e della Valle Sabbia che fu classificato per la prima volta nel 1936 dall'entomologo Gian Maria Ghidini. Nel corso della prima guerra mondiale, la Valle di Vesta fu fortificata da reparti del genio militare del Regio esercito italiano con la costruzione di una linea di sbarramento arretrata composta da postazioni protette di artiglieria, strade e trincee qualora il fronte delle Giudicarie e quello secondario della Val Vestino fosse stato infranto dall'avanzata dell'esercito austriaco. Fino al 1960 circa il legname della foresta della Valle fu usato per la produzione di carbone vegetale.


La pratica delle carbonaie


Sul monte sono presenti numerose e antiche aie carbonili simbolo di una professione ormai scomparsa da decenni. Quella della carbonaia, pojat in dialetto locale, era una tecnica molto usata in passato in gran parte del territorio alpino, subalpino e appenninico, per trasformare la legna, preferibilmente di faggio, ma anche di abete, carpino, larice, frassino, castagno, cerro, pino e pino mugo, in carbone vegetale. I valvestinesi erano considerati degli esperti carbonai, carbonèr così venivano chiamati, come risulta anche dagli scritti di Cesare Battisti[13][14]. I primi documenti relativi a questa professione risalgono al XVII secolo, quando uomini di Val Vestino richiedevano alle autorità della Serenissima i permessi sanitari per potersi recare a Firenze e a Venezia. Essi esercitarono il loro lavoro non solo in Italia ma anche nei territori dell'ex impero austro-ungarico, in special modo in Bosnia Erzegovina, e negli Stati Uniti d'America di fine Ottocento a Syracuse-Solvay[15].

Nonostante questa tecnica abbia subito piccoli cambiamenti nel corso dei secoli, la carbonaia ha sempre mantenuto una forma di montagnola conica, formata da un camino centrale e altri cunicoli di sfogo laterali, usati con lo scopo di regolare il tiraggio dell'aria. Il procedimento di produzione del carbone sfrutta una combustione imperfetta del legno, che avviene in condizioni di scarsa ossigenazione per 13 o 14 giorni[16].

Queste piccole aie, dette localmente ajal, jal o gial, erano disseminate nei boschi a distanze abbastanza regolari e collegate da fitte reti di sentieri. Dovevano trovarsi lontane da correnti d'aria ed essere costituite da un terreno sabbioso e permeabile. Molto spesso, visto il terreno scosceso dei boschi, erano sostenute da muri a secco in pietra e nei pressi il carbonaio vi costruiva una capanna di legno per riparo a sé e alla famiglia. In queste piazzole si ritrovano ancor oggi dei piccoli pezzi di legna ancora carbonizzata. Esse venivano ripulite accuratamente durante la preparazione del legname[17].

A cottura ultimata si iniziava la fase della scarbonizzazione che richiedeva 1-2 giorni di lavoro. Per prima cosa si doveva raffreddare il carbone con numerose palate di terra. Si procedeva quindi all'estrazione spegnendo con l'acqua eventuali braci rimaste accese. La qualità del carbone ottenuto variava a seconda della bravura ed esperienza del carbonaio, ma anche dal legname usato. Il carbone di ottima qualità doveva "cantare bene", cioè fare un bel rumore. Infine il carbone, quando era ben raffreddato, veniva insaccato e trasportato dai mulattieri verso la Riviera del Garda per essere venduto ai committenti. Di questo carbone si faceva uso sia domestico che industriale e la pratica cadde in disuso in Valle poco dopo la seconda guerra mondiale soppiantato dall'uso dell'energia elettrica, del gasolio e suoi derivati[18].


Panorama


Nei giorni sereni si gode un panorama eccezionale; a nord la Val Vestino con il Monte Cingla, Monte Tombea, Monte Denai, Cima Rest, Cima Gusaur e il Caplone, la vetta più alta delle prealpi gardesane occidentali e in lontananza si scorge la vetta del monte Adamello con quello che rimane del suo ghiacciaio perenne, a ovest la Cima della Fobbia, il monte Manos e le montagne della Valle Sabbia; a sud il monte Pizzocolo e la zona morenica meridionale del lago di Garda con la città di Peschiera del Garda. Ad est è invece possibile osservare la Valle del Droanello, il monte Denervo, la zona della Costa e il monte Baldo con il monte Altissimo di Nago.


Galleria d'immagini



Note


  1. Cuchetto deriva dal termine medioevale "cocca" che significa dosso o cima e indica il passaggio che mette in comunicazione Bollone con il Monte
  2. Ottone Brentari, Guida del Trentino, pubblicato da Premiato stabil. tipogr. Sante Pozzato, 1902
  3. Fausto Camerini, Prealpi Bresciane, 2004.
  4. Paolo Guerrini, Memorie storiche della diocesi di Brescia, volume 3, 1932.
  5. Franz Jaeger, Geschichte des K.k. Infanterie-regiments Georg Prinz von Sachsen, NR.11, 1879
  6. Lionello Alberti e Sergio Rizzardi, Terre di Confine, Brescia, 2010, pp. 136, 137 e 150.
  7. Claudio Fossati, Peregrinazioni estive -Valle di Vestino-, in "La Sentinella Bresciana", Brescia 1894.
  8. Donato Fossati, Storie e leggende, vol. I, Salò, 1944.
  9. Andrea De Rossi, L'astrologo di Gaino, in "Periodico delle Parrocchie dell'Unità pastorale di Maderno, Monte Maderno, Toscolano", gennaio 2010.
  10. "La Grande Guerra in Lombardia", museo della guerra bianca-Temù, forte Montecchio nord-Colico, centro di documentazione e studio.
  11. Vito Zeni, Miti e leggende ed alcuni fatti storici di Magasa e della Valle di Vestino, Magasa 1985 (dattiloscritto).
  12. Silvano Vinceti, Salò capitale: breve storia fotografia della RSI, 2003.
  13. C. Battisti, I carbonari di Val Vestino, «Il Popolo», aprile 1913.
  14. Storia della lingua italiana, Volume 2, 1993.
  15. G. Zeni, En Merica. L'emigrazione della gente di Magasa e Val Vestino in America, Cooperativa Il Chiese, Storo, 2005.
  16. Studi trentini di scienze storiche, Sezione prima, volume 59, 1980.
  17. A. Lazzarini, F. Vendramini, La montagna veneta in età contemporanea. Storia e ambiente. Uomini e risorse, 1991.
  18. F. Fusco, Vacanze sui laghi italiani, 2014, pagina 169.

Bibliografia



Collegamenti esterni


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[en] Monte Vesta

Monte Vesta is a mountain of Lombardy, Italy. It administratively belongs to the province of Brescia.
- [it] Monte Vesta



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