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Il monte Bibele è un massiccio montuoso del medio Appennino bolognese che fa da spartiacque tra i bacini del torrente Idice a est e del torrente Zena a ovest. La sua vetta massima raggiunge i 617 metri sul livello del mare ed è situata nel territorio del comune di Monterenzio (BO).

Monte Bibele
Stato Italia
Regione Emilia-Romagna
Provincia Bologna
Altezza617 m s.l.m.
CatenaAppennino tosco-emiliano
Coordinate44°16′14.89″N 11°22′20.31″E
Mappa di localizzazione
Monte Bibele

Origine del nome


Il toponimo Bibele deriva verosimilmente dal verbo latino bibo che significa bere; questa montagna, infatti, è nota in documenti medievali col nome di monte Bibulo, ed era fino agli anni '70 del secolo scorso molto prolifica di sorgenti perenni di acqua dolce e sulfurea [1] che sgorgavano ai suoi piedi.


Geografia


Costituito da arenarie e marne epiliguridi neogeniche del Gruppo del Bismantova, è formato da numerosi rilievi e pianori, talvolta circondati da ripide pendici. Le tre cime principali sono Monte Bibele (617 m s. l. m.), che dà il nome a tutto il massiccio, Monte Tamburino (575 m s. l. m.) e Monte Savino (550 m s. l. m.), il cui fianco orientale è detto "Pianella di Monte Savino".


Storia


La posizione naturalmente fortificata del massiccio, che domina le due vallate e che permette da un lato (sud) la visione fino al passo della Raticosa e dall'altro (nord- nordest) verso la pianura padana e la ricchezza di acque sorgive furono senza dubbio tra le ragioni della scelta dell’insediamento umano.

Il massiccio ha restituito evidenze archeologiche che si datano a partire dall'età del Rame, che assumono maggiore rilevanza per l'età del Bronzo recente (XIII sec. a.C.) e soprattutto per la seconda età del Ferro.

Per l'età del Ferro sono stati riportati in luce i resti di un'area di culto etrusca (stipe) alle pendici sud-occidentali di Monte Tamburino, di un abitato etrusco celtico sulla Pianella di Monte Savino, cui va riferita la necropoli scoperta sul Monte Tamburino. Infine un'area pianeggiante delimitata da fossati artificiali alla sommità del Monte Bibele ha fatto avanzare l’ipotesi dell’esistenza di un luogo di culto celtico.

Il monte Bibele è anche noto perché dà il nome a una galleria ferroviaria dell'alta velocità del tratto Bologna-Firenze, sebbene essa non fori la montagna in pieno, ma sia situata poco più a sinistra, nella valle dello Zena.

Monte Bibele
ContinenteEuropa
StatiITA
Catena principaleAppennino tosco-emiliano
Tipi di roccealternanze di arenarie e marne

L'area archeologico-naturalistica



La stipe votiva


La scoperta di una stipe votiva a Monte Bibele è stata del tutto involontaria. I primi sondaggi del 1989 sulle pendici sud-occidentali di Monte Tamburino (seguiti da campagne di scavo negli anni 1993-95 sotto la direzione di Daniele Vitali) volevano in realtà individuare la parte più recente della necropoli del vicino abitato etrusco-celtico di Pianella di Monte Savino.

In un'area esplorata di circa 110 m², si è messa in luce una depressione a forma di conca molto aperta, al centro della quale è stata riscontrata la antica presenza di un piccolo specchio d'acqua.

All'interno della depressione, ricoperta da uno spesso strato di terreno colluviale, all'interno di un terreno di riempimento il cui spessore varia dai pochi centimetri dei bordi ai 35-40 cm del centro, sono state rinvenute 195 statuette di bronzo, che si inquadrano bene nella produzione artigianale etrusco-italica del V sec. a.C., con particolari affinità con i contemporanei bronzetti schematici di Bologna e dell'Appennino emiliano-romagnolo.

Insieme ai bronzetti giacevano numerosissimi esemplari di vasellame ceramico: centinaia di vasi miniaturistici e alcuni vasi di normali dimensioni, rientranti nel panorama delle produzioni etrusco-padane del V sec. a.C. Per alcuni dei materiali rinvenuti i confronti rimandano inoltre alle produzioni attiche a vernice nera. Accanto a questi materiali troviamo inoltre vasellame di pasta grigia, di impasto buccheroide e a vernice nera di produzione volterrana, che sembra portare la frequentazione della stipe ad un orizzonte cronologico più tardo (fino alla seconda metà-fine del IV sec. a.C.).

Bronzetti e ceramiche erano deposti come offerte votive intorno o all'interno del piccolo bacino. Non si sono invece trovate tracce di sistemazione monumentale dell'area sacra, né è stato possibile individuare quale fosse la divinità oggetto di culto.

Quello che si deduce dai materiali e che colpisce è la frequentazione intensa della stipe in pieno V sec. a.C., quando in apparenza il vicino abitato di Pianella di Monte Savino non esisteva ancora, mentre le tracce di frequentazione si affievoliscono fino a scomparire con il corso del IV sec. a. C., proprio quando l'abitato fiorisce.

In realtà sono ormai numerosi gli indizi che fanno pensare all'esistenza di un insediamento sulla Pianella già nel V sec. a. C., quasi totalmente cancellato dai rimaneggiamenti delle epoche successive. È possibile che, con l'apparire della nuova e massiccia componente di Celti transalpini a Monte Bibele nel IV sec. a.C., il ruolo sacrale venga a sparire e la frequentazione della stipe cessi, forse a vantaggio di nuove forme di culto.[2][3]

Casa 2 ricostruita nell'area archeologica di Monte Bibele.
Casa 2 ricostruita nell'area archeologica di Monte Bibele.

Il villaggio etrusco-celtico di Pianella di Monte Savino


In una zona naturalmente difesa, sul versante attualmente denominato Pianella di Monte Savino, gli scavi sino ad ora condotti hanno riportato alla luce un abitato d’altura di circa 7000 m², in gran parte esplorato. L'area dell'abitato ha sfruttato il pendio più o meno forte del versante sud-orientale di Pianella di Monte Savino.

Materiali archeologici databili al V sec. a.C. indicano la frequentazione del sito già in quest’epoca, già per scopi insediativi; tuttavia la fase più consistente dell’abitato si colloca tra gli inizi del IV e il II sec. a.C. L'impianto di IV secolo ha obliterato le strutture dell'abitato precedente, del quale ci sfuggono le caratteristiche.

I motivi che determinarono l’impianto dell’abitato vanno ricercati nella situazione storica degli inizi del IV sec. a. C., quando la Pianura Padana era coinvolta nelle massicce migrazioni di tribù celtiche dall’Europa Centrale, attirate in Italia dalla fertilità della nostra penisola, nota a loro per le relazioni e i contatti da tempo stabiliti con vari popoli italici, fra cui gli Etruschi.

L’insicurezza e l’instabilità del momento provocarono mutamenti nel popolamento, con il parziale abbandono dei centri urbani, a favore di siti d’altura naturalmente difesi. Nel nostro caso, l’area della Pianella di Monte Savino favorevole per la ricchezza di fonti d’acqua e per le possibilità di controllo del territorio circostante, fu scelta da un gruppo di etruschi per insediarvi un nuovo villaggio.

Attorno al 350 a.C., al primo nucleo di abitanti etruschi del villaggio si affianca la presenza di una componente celtica. Questo arrivo è segnalato non tanto dai pochi oggetti di tipo celtico rinvenuti all’interno dell’abitato, quanto dalle tombe del vicino sepolcreto.

Un consistente strato di incendio documenta poi la fine dell’abitato agli inizi del II sec. a. C. Questa fine improvvisa è con tutta probabilità da collegarsi alle operazioni di conquista effettuate dai Romani in quest’area.

Il villaggio venne costruito secondo un “progetto urbanistico” rigoroso ed unitario, che richiese la soluzione di alcuni problemi strutturali determinati dalla natura stessa del sito e l’impiego di una notevole forza lavoro. L’area in questione dovette infatti essere disboscata e la forte pendenza della montagna (dal 10 al 30%) venne spezzata con la costruzione di una decina di terrazzamenti consecutivi, con andamento nord-sud.

Tali terrazzamenti, piattaforme di terra sostenute da muri di pietra, costituirono una sorta di isolati dalle dimensioni irregolari, su cui vennero impiantate sia le strutture abitative (da 40 a 50) che quelle di uso collettivo (vari magazzini per conservare i cereali e la cisterna).

La viabilità interna al villaggio era assicurata da un sistema di strade e rampe, che collegava i vari isolati; in particolare, le strade, lastricate con ciottoli, grazie alla loro costante pendenza di circa 4°, costituivano anche un funzionale sistema di scorrimento delle acque piovane verso i settori non edificati ai margini del villaggio, fino a confluire per lo più in un grande inghiottitoio naturale (la “tana del tasso”), che ancora oggi assorbe la maggior parte delle acque correnti, essendo posto alla convergenza delle principali linee di pendenza dell’abitato.[2] (v. D. Vitali, https://www.academia.edu/2950656/Monte_Bibele_criteri_distributivi_nellabitato_ed_aspetti_del_territorio_bolognese_dal_IV_al_II_secolo_a_C)


La necropoli di Monte Tamburino


La sommità e il versante occidentale di Monte Tamburino furono occupate da una necropoli databile dalla fine del V sec. a.C. in poi, e riferibile all’abitato di Pianella di Monte Savino. Tra le ricerche clandestine e quelle ufficiali, si può dire che dal sepolcreto provengono circa 170 tombe (161 da scavi regolari più un’altra decina da scavi clandestini). Gli scavi regolari sono stati effettuati dal Dipartimento di Archeologia dell'Università di Bologna, tra il 1979 e il 1999, sotto la direzione di Daniele Vitali[3]

Il livello attuale del terreno non corrisponde a quello del suolo antico: l’erosione ha abbassato la parte sommitale e più alta del pendio, mentre nella parte bassa, dove il terreno di colluvione si è fermato, lo spessore è cresciuto: per questa ragione le tombe delle parti più alte della necropoli sono quasi affioranti, mentre quelle della parte bassa del pendio si trovano a profondità maggiori.

Sulla cima, quasi pianeggiante, le fosse (39) hanno una distanza reciproca molto ampia (circa 3 metri) ed un orientamento prevalentemente nord-ovest/sud-est; le fosse collocate lungo i fianchi sud e nord (rispettivamente 14 e 103) sono organizzate in maniera quasi lineare, e sul pendio settentrionale formano quattro file molto evidenti, alle quali si mescolano gruppi di fosse più piccole, di incinerati. Le fosse di questo settore sono collocate trasversalmente al pendio, e presentano un corridoio di accesso (dromos) che si inserisce al centro del lato rivolto verso valle.

Un più ampio raggruppamento di incinerazioni, apparentemente privo di ordine, è collocato all’estremità nord-ovest del pendio.

Complessivamente sono state recuperate 123 tombe a inumazione e 38 tombe a incinerazione. Nella necropoli di Monte Tamburino si riconoscono almeno 4 fasi che si susseguono tra lo scorcio del V e la metà del III sec. a.C.; la disposizione regolare delle strutture tombali, integrata dallo studio dei corredi, consente di avere un quadro abbastanza preciso della successione temporale dei seppellimenti. Si può dire che la necropoli rappresenta una sorta di registro dei decessi, nel quale troviamo alle prime pagine le tombe più antiche e alle ultime quelle più recenti. In questo registro possiamo dunque cogliere almeno una parte delle vicende della comunità di Monte Bibele: le tombe più antiche appartengono a genti etrusche, quelle più recenti a genti celtiche ed etrusche. La comparsa di Celti nella comunità di Monte Bibele si ha circa intorno al 380 a.C.

Lo studio integrato dei materiali di corredo - operato da archeologi, specialisti dell’armamento celtico, specialisti di tessuti antichi, paleozoologi, paleoantropologi - ha consentito di caratterizzare ogni singola deposizione funebre già a partire dall’età e dal sesso.

I corredi costituiscono insiemi coerentemente strutturati e mostrano l’esistenza di un sistema di ritualità ben radicate a Monte Bibele, come a Monterenzio Vecchio e, più in generale, nel territorio bolognese. Essi comprendono oggetti di parure e di ornamento, un servizio per il banchetto, armi di ferro, insieme ad elementi indicativi dello stato sociale e/o dell’età del defunto.

Le tombe con armi rappresentano l’elemento di maggiore interesse della necropoli: innanzitutto attestano il ruolo importante svolto dall’elemento guerriero all’interno della comunità, in secondo luogo mostrano gli strettissimi legami con le forme e l’evoluzione dell’armamento dell’Europa celtica transalpina.

Questa concordanza indica che con la Keltiké d’oltralpe vi furono non solo legami molto stretti, ma rapporti continui e ininterrotti.

Sono questi aspetti che fanno di Monte Bibele un sito di rilievo internazionale per quanto concerne l’archeologia dei Celti in Italia.[2][3]https://www.academia.edu/2219345/La_nécropole_de_Monte_Bibele_Préliminaires_pour_une_analyse_spatiale_et_chronologique


Il Museo archeologico "Luigi Fantini" di Monterenzio


Lo stesso argomento in dettaglio: Museo archeologico "Luigi Fantini" di Monterenzio.

Il Museo raccoglie le testimonianze archeologiche utili a ricostruire la storia della presenza dell’uomo nell’Appennino bolognese, in particolare nelle Valli dell’Idice e dello Zena, dai primi manufatti in pietra del Paleolitico fino all’età romana e medievale.

Ampio spazio è dedicato ai reperti provenienti dagli scavi archeologici del Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna svoltisi su Monte Bibele e su Monterenzio Vecchio, rispettivamente sulla sinistra e sulla destra idrografica dell’Idice.

La scoperta dell’abitato etrusco-celtico di Pianella di Monte Savino (fine V - inizi II sec. a.C.) e della relativa necropoli sul Monte Tamburino (fine V – seconda metà III sec. a.C.) ha gettato nuova luce su due secoli di storia poco conosciuti, caratterizzata dall’arrivo nei nostri territori di gruppi etnici di Celti.

Nel contempo, le ricerche dirette da D. Vitali e Th. Lejars (1999-2009) in una nuova necropoli sul pendio ai piedi della Chiesa parrocchiale di Monterenzio Vecchio (metà IV- metà del III sec. a.C.), hanno portato nuovi corredi (etrusco-celtici) nel Museo, che è diventato così uno dei principali punti di riferimento per lo studio dei Celti in Italia.


Note


  1. CNR Bologna - localizzazione del monte Bibele, su kidslink.bo.cnr.it. URL consultato il 22 luglio 2010.
  2. aa.vv., Archeologia nell'alta valle dell'Idice, Bologna, Te.m.p.l.a., 2015.
  3. D. Vitali, La necropoli di Monte Bibele, voll. 1 e 2, Bologna, Alma Mater Studiorum, 2003, pp. 1-471; 1-280-, ISBN 88-88120-33-5.

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